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Assaggi di libri – La cultura della comunicazione

Parlare di un’esperienza autentica è come riferirsi a una sorta di utopia. Quelle parole talvolta richiamano una vaga nostalgia: tipo gite in bicicletta, panini al salame, serate intorno al fuoco. Un mondo del quale il senso era comprensibile e non inquinato da messaggi interessati, fatti per indurre desideri artificiosi e consumi inutili. Si può forse pensare che l’utopia sia insieme una visione, una tensione etica ed educativa, un progetto pensato prima di fare compromessi con la realtà. Ma forse è ancora più indispensabile elaborare intorno all’utopia per leggere criticamente la realtà. E un sottotesto utopico c’è nei libri che si occupano della strana relazione tra il marketing e la realtà.

libro_lindstrom.jpgMartin Lindstrom ha scritto un nuovo bestseller dedicato alle bugie del marketing. Esplora i modi in cui le aziende persuadono i consumatori facendo leva sui meccanismi dell’emulazione. Osserva come giocano con i sensi di colpa e le paure, le nostalgie e l’ammirazione per le persone celebri. Insinuano messaggi intriganti al di sotto della soglia della coscienza. E trasformano qualunque elemento della vita in un potenziale strumento della generazione di senso che serve ai loro interessi. Sono bugie nel senso che collegano ogni aspetto dell’emozione umana al desiderio di acquistare un prodotto. E non c’è dubbio che questo genere di cultura della comunicazione sia sconfinato ben oltre il consumo di beni e sia diventato pane quotidiano anche in politica e non solo.

Questa strumentalizzazione senza confini è una delle macchine di distruzione del senso di autenticità che sembra attanagliare come un groppo alla gola chiunque immagini un mondo nel quale le persone siano consapevoli e gli individui possano pensare di essere autori della loro vita.

libro_autenticita.jpgJames Gilmore e Joseph Pine si pongono questo problema dedicando un libro all’autenticità. Gli autori sono esperti della cosiddetta “economia dell’esperienza”. Una dimensione dell’economia nella quale le aziende tentano di entrare progettando in ogni minimo dettaglio i loro prodotti in modo da generare non solo oggetti capaci di svolgere le funzioni per le quali sono comprati ma anche, appunto, di produrre un’esperienza che a sua volta sia coinvolgente e memorabile. E il problema è che questa esperienza deve essere percepita anche come autentica. La discussione intorno a questo concetto è probabilmente appena incominciata e non è certo conclusa con il libro di Gilmore e Pine. C’è un elemento di complessità insanabile tra l’autenticità proposta e l’autenticità riconosciuta: il soggetto dell’esperienza autentica non può essere solo il progettista, ma anche la persona che compie quell’esperienza. E dunque l’autenticità è in un punto della relazione nella quale entrambi sono alla pari, un punto nel quale ciascuno apporta il suo mondo di significati e di esperienze pregresse, di speranze, di utopie. Il confine è labile. E il fenomeno umano che ne risulta è estremamente delicato.

La strumentalizzazione di tutto e di tutti che si sperimenta in una cultura ossessivamente orientata alla comunicazione e priva di consapevolezza della dimensione paritaria della relazione autentica, nella quale il rispetto e il servizio sono valori e non dettagli, è una forma di inquinamento dell’ecosistema dell’informazione. Ne stiamo pagando ancora il prezzo. E coltivare l’utopia è uno dei modi – non unico e non sufficiente – per ripulirci un po’ la mente. Perché l’utopia non è nostalgia: perché guarda avanti e non indietro…

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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