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Caos piattaforme ingorde di dati personali

Prima si è parlato delle apps che si prendono la rubrica del telefono degli utenti e la registrano sui server delle aziende che le producono senza dirlo esplicitamente (a partire dal caso Path). Poi si è saputo di un’inchiesta sul presunto comportamento di Google e altre compagnie di pubblicità online che assorbivano informazioni sugli utenti contro la loro volontà espressa nei settings del loro browser Safari sui device della Apple (Wsj). Oggi l’accusa si estende: Google aggirerebbe i settings degli utenti che usano Explorer e vogliono mantenere privata la loro navigazione online (IEBlog). Google ha risposto che è il browser della Microsoft a non funzionare correttamente (TheVerge). Ma intanto altri dicono che pure Facebook fa lo stesso (Zdnet).

Vedremo se si tratta di allarmi giustificati. Purtroppo non possiamo che conoscerne i riflessi sulla base di informazioni riportate.

Bisogna anche dire che non si tratta di informazioni riservate in senso pieno, perché tutti sanno che almeno i siti visitati dagli utenti possono registrare molte cose sui loro visitatori. Ma è chiaro che mettere insieme tutte le informazioni su tutti i siti visitati genera una conoscenza molto più approfondita dei comportamenti delle singole persone. Tra l’altro sembra di capire che si tratti di raccolte di dati volte a
personalizzare il servizio: il che ha dei vantaggi per gli utenti, anche
se non cessa di preoccupare chi ha conoscenza dei rischi della filter
bubble
. Rimediare non è concettualmente difficile: scegliere l’opt-in in tutti i casi sarebbe una soluzione idealmente sana. E consentirebbe di poter fare causa contro le piattaforme che non adempiono. In una situazione di incertezza normativa, le piattaforme tendono a fare quello che vogliono. Ma è anche chiaro che se aggirano l’esplicita volontà degli utenti, manifestata nel momento in cui configurano i loro browser in modo da non consentire il tracciamento dei loro comportamenti, sono per lo meno sleali nei loro confronti.

Può apparire dura una misura che obblighi tutti all’opt-in senza se e senza ma. E molti editori si oppongono a una possibile innovazione normativa che vada in tal senso e che l’Europa ha disegnato. D’altra parte è una misura che serve solo da deterrente – la minaccia di possibili class action – perché quello che le piattaforme fanno dietro le quinte è largamente invisibile agli utenti. Si ha l’impressione che questo fenomeno sia inarrestabile. Se poi pensiamo che esistono piattaforme di paesi autoritari che possono voler registrare il comportamento degli utenti per motivi politici, oppure che ci siano organizzazioni criminali che possono voler registrare il comportamento degli utenti per mettere a punto truffe e altre violenze, oppure che ci possono essere singoli dipendenti infedeli che lavorano nelle piattaforme legittime e che si possono inventare delle forme di leak dei dati a scopo di lucro personale, andiamo di male in peggio. Si rischia la diffidenza generalizzata nei confronti della rete.

In questo caso, sarebbero le piattaforme che gesticono la maggior parte del traffico internet a perdere valore. Se la gente cominciasse a diffidare di tutti coloro che sono in rete, le grandi capitalizzioni di borsa dei giganti della rete sarebbero messe a dura prova. Ma per comprendere questo aspetto, le grandi piattaforme dovrebbero avere una cultura del lungo termine, non essere dominate da una cultura finanziaria. D’altra parte, il lavoro delle piattaforme che gestiscono la maggior parte del traffico internet ha un valore pubblico: e anche questa consapevolezza le dovrebbe portare a pensare al lungo termine non ai guadagni di breve durata. L’ipersfruttamento della fiducia degli utenti di internet sarebbe un caso clamoroso di “tragedia dei beni comuni“. Contro questa eventualità, la comunità deve attrezzarsi (e lo fa), allo scopo di fare manutenzione dei commons culturali che sono nati e si sono sviluppati con la crescita della rete. O le piattaforme private lo comprendono, oppure la comunità si doterà di nuove piattaforme orientate ai beni comuni, prima o poi. Quando Google è arrivata ha spazzato via Altavista, perché funzionava meglio. E quando è arrivata Facebook ha fatto piazza pulita di MySpace. I giganti della rete nascono, crescono in fretta e possono passare altrettanto velocemente in una condizione di declino. Sembra impossibile parlando di Google e Facebook. E di certo è enormemente improbabile. Ma la prossima piattaforma, quella che funziona meglio, è sempre possibile su internet. E la consapevolezza degli utenti è una realtà da non sottovalutare.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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