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Riflessioni sulla qualità (in progress)

Qualità. Intesa in senso procedurale è una questione di standard di processo produttivo. E di per se è un avanzamento importantissimo. Ma di certo non basta minimamente a capire il tema. Specialmente quando si ammette che la qualità dipende tanto da chi la produce quanto da chi sa riconoscerla. Che sia una sedia o un giornale, chi offre un prodotto o un servizio lavorando con la massima qualità della quale è capace ha bisogno di qualcuno che nel fruirne la sappia comprendere. La qualità insomma discende da un insieme di conoscenze comuni tra chi offre e chi usa. La qualità è culturale. Dunque contiene intelligenza collettiva, beni comuni, valori condivisi, almeno tanto quanto contiene ricerca personale ed esplorazione individuale operata da persone che si curano di approfondire nel miglior modo possibile il loro tema. E a loro volta quelle persone tanto dedicate hanno bisogno di veder riconosciuto il loro impegno. L’individuale, l’unico, della qualità è anche frutto di un’identità e di un senso comune. La sfida è pensare l’insieme di tutto questo senza disperdersi nei rivoli della teoria. Ma pensando e verificando il pensiero nell’azione.
Di una cosa però siamo certi. La qualità non è un dato che si acquisisce una volta per tutte e che va riconosciuto per diritto ereditario. E un valore che si deve riverificare ogni volta sul campo.
E di una seconda cosa siamo ancora più certi. L’investimento in qualità è proprio di chi con grande cura propone il suo prodotto e contemporaneamente della società che coltiva la sua cultura: l’investimento in cultura ed educazione è strategico per una società che non può che puntare sulla qualità per giocare la sua partita competitiva. L’investimento in educazione genera utenti capaci di riconoscere la qualità e nello stesso tempo garantisce un vivaio di imprenditori capaci di offrire la qualità. La mancanza di questo investimento impoverisce il lato comune della qualità finendo che inaridirne le sorgenti.
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Il filo intermentale
Ripulire dalle incrostazioni le menti e le comunicazioni tra le menti. Ci vuole il filo intermentale, dice Alessandro Bergonzoni.

Si rifletteva, con Bergonzoni in una serata alla Molteni (quella degli arredamenti, a Giussano) sulI’idea di progresso in termini di qualità.
Ma che cosa occorre fare per
passare dall’epoca del progresso definito dalla quantità di beni
prodotti a una nuova epoca in cui si valuti il progresso in termini di
qualità? Tutto intorno a noi lo chiede. E noi fatichiamo a rispondere. I
soldi, restano la banalizzazione più utilizzata per capire se si va
avanti o indietro. Eppure non bastano più.

“Che cosa sai? Se non
sai nulla non ci può essere qualità” dice Bergonzoni. “L’ignoranza è
biadesiva, si attacca dappertutto. E’ nemica della qualità”.

Già.
Prendiamo la Molteni, appunto. Produce tutto a Giussano e vende in
tutto il mondo. Aggrega la sapienza indicibile dell’artigianato
brianzolo, il design multinazionale di Norman Foster o Jean Nouvel, il
discorso della qualità di successo che diventa storytelling e marketing,
articolato da un sistema narrativo formato da artisti, critici,
giornalisti, filosofi e uomini d’azienda, in modo che sia compreso e che
educhi il pubblico. Se l’artigiano sa fare ma non sa dire quello che sa
fare, occorre un pubblico che comprenda il valore di quello che
l’artigiano sa fare. Dunque occorre cultura diffusa, una narrazione
comune, che consenta alla qualità di essere riconosciuta e sviluppata.

La
qualità non è più solo quella certificata dall’Iso. Lo standard è
necessario come un must. Non fa la differenza. La qualità “narrativa”
dei prodotti che riescono a farsi riconoscere un valore in più è meno
facile da definire ma molto, molto più importante per stare al mondo, in
un mondo globalizzato. Ne parla anche Aldo Bonomi
quando chiama in causa le reti corte del distretto delle competenze
incarnate nella storia di un territorio e le reti lunghe
dell’internazionalizzazione.

Ma un fatto è certo. Se il
territorio dal quale parte la narrazione della qualità e la sua
fabbricazione non alimenta la propria cultura, diventa meno sofisticato e
sottile, perde anche la sua capacità di entusiasmarsi per una cerniera
ben congegnata o per una sedia fatta a regola d’arte. D’arte. Non si
scappa: l’investimento più rilevante per un paese come l’Italia, che
compete proprio su queste questioni, è l’investimento in cultura
profonda, vera, viva. La sua parodia televisiva e la sua banalizzazione
finanziaria non sono sufficienti.

Qualità, quale qualità
Non è relativismo assoluto. E’ la globalizzazione che mette in dubbio il
senso e soprattutto l’applicazione del concetto di “qualità”.

E’
una domanda centrale. Abbiamo superato la fase storica della quantità
di prodotto, forse, nella quale tutto si sacrificava sull’altare del
mito della crescita infinita. Ora, se c’è una definizione di progresso
che ci possiamo dare non è più legata alla crescita della quantità di
prodotto, senza tener conto degli effetti collaterali. La definizione di
progresso che ci possiamo dare oggi, epoca della necessità di
affrontare le questioni dell’ambiente, dell’identità culturale, della
profondità delle relazioni umane, non può che avere a che fare piuttosto
con la qualità.

Ma la qualità che cos’è? Nel contesto della
globalizzazione, nel quale i confini scompaiono o meglio si
moltiplicano, nella quale ogni territorio è “vicino” e si “confronta”
con ogni altro, nella quale ogni territorio compete con ogni altro, la
qualità non è più facilmente comprensibile, perché appunto dipende dai
punti di vista. Questa difficoltà concettuale riesce a difendere ancora
il mito della quantità, ma senza soddisfare il bisogno di una narrazione
di progresso più chiaramente legata alla qualità.

Non si risolve in un post. Ma con un post si può iniziare a riflettere.

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Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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