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Zambardino preferisce il conflitto

Zambardino scrive una bella critica del mio discorso di ieri. Lo ringrazio: certamente merita una risposta approfondita. 

La sua critica è gentile (almeno all’inizio) ma ferma (sì, ferma, anche nel senso che non si muove da una posizione che tiene da molto tempo). Il problema della sua critica è che è basata sul metodo retorico di portare alle estreme conseguenze una parte di quanto ho detto, senza tenere conto dell’insieme. Dice Zambardino che le mie sono “pericolose utopie”, perché privilegiano la cooperazione in un mondo nel quale invece prevale il conflitto. E che dimenticando il conflitto si raccontano favole.
Il fatto è che non dimentico il conflitto. Penso soltanto che si possa capire la realtà che stiamo vivendo soltanto tenendo conto del fatto che in rete le soluzioni che fanno più strada sono quelle che in qualche modo seguono una logica win-win, cioè sono simbiotiche e non parassitarie. Una soluzione chiusa, in rete, perde, contro una soluzione aperta. Una piattaforma che valorizzi molte applicazioni indipendenti vince su una piattaforma che fa concorrenza alle applicazioni degli sviluppatori indipendenti. Una rete neutrale vince su una rete centralisticamente governata, perché attiva energie e fantasie che un centro decisionale unico non riesce ad attivare. E così via. Tutto questo è noto a Zambardino e, ne sono certo, lo trova d’accordo. 
E’ anche chiaro che non si può mai dire che una soluzione che nasce aperta, in futuro non venga chiusa. O che un’idea simbiotica in un momento, non si trasformi in rapace in un altro momento. Google va tenuta d’occhio, per esempio.
Il fatto è che non dimentico il conflitto. Su questo blog ho parlato della mia preferenza per le piattaforme pubbliche anche nei social network rispetto alle piattaforme private, nelle quali le identità digitali delle persone diventano “proprietà” di compagnie orientate al profitto immediato. Ho parlato di televisione e pubblicità che urlano per attrarre l’attenzione e rinsecchiscono l’immaginazione (e non solo citando anche ieri Palahniuk), oltre a mettere in difficoltà i modelli di business indipendenti. Ho parlato di attacchi alla net neutrality, alla privacy, alla libertà di espressione. Concordo con Zambardino nella critica delle bizzarre proposte degli editori. 
Ho peraltro supposto che, poiché in rete le logiche win-win prevalgono su quelle chiuse e poiché in rete per ogni problema può nascere un’iniziativa che si ponga l’obiettivo di risolverla, alla lunga l’innovazione aperta può vincere sulla conservazione chiusa. E su questo lo stesso durissimo e ben poco utopista Moisés Naìm, direttore della magnifica Foreign Policy, è convinto che persino in Cina la logica della chiusura e del controllo perderà e che il paese finirà per aprirsi, alla lunga, proprio a causa dell’incontrollabilità della logica della rete e delle opportunità tecnologiche offerte da internet.
Anche la questione di Google è un esempio di critica poco chiara. L’azienda americana può trasformarsi in un monopolista affamato. Ne abbiamo parlato anche qui. Ma se, proprio per la logica della rete, vince tanto più quanto più si mette al servizio dell’insieme non si vede perché dovrebbe operare quella trasformazione. Quando dovesse esagerare a sfruttare la sua enorme forza, probabilmente le alternative verrebbero rafforzate. La Microsoft, che un tempo sembrava iperpotente, ha avuto più problemi dalla concorrenza di nuove soluzioni tecnologiche e sociali piuttosto che dall’antitrust (che pure ha fatto bene a intervenire a suo tempo). Se Google volesse diventare troppo rapace – e il rischio c’è eccome – finirebbe per aprire la strada ai suoi successori.
La cultura della rete è orientata alla cooperazione non perché è buona o favolistica. Ma perché in molti casi la cooperazione vince sulla rapacità. Non in tutti i casi, ovviamente. E non automaticamente. Occorre che chi vede un problema lo racconti e attivi le forze di chi sa fare qualcosa per risolverlo. E questo peraltro avviene spesso, se non sempre.
Dunque, non riesco a capire perché la critica di Zambardino che tende (anche nel post di ieri) a trasformarsi da gentile e impersonale a personale e aspra, richiamata anche in Eretici Digitali, non trovi una composizione. 
Se poi è il concetto di “felicità” che lo preoccupa, come una “pericolosa utopia”, spero si renda conto che non c’è alcun motivo di condannare tutti al conflitto senza avere uno straccio di speranza di essere felici. Non in un contesto di fiction: in un contesto di informazione razionale, il che è esattamente quello di cui stiamo parlando. Del resto, in un libro sull’argomento, ho tentato di mostrare i diversi lati della questione (parlando per esempio di pubblico attivo e di pubblico cattivo). E senza mai sostenere che l’economia della felicità possa sostituire quella del mercato competitivo: semplicemente esiste e rendersene conto offre una dimensione di lettura in più dei fenomeni. Allo stesso modo, la dimensione della cooperazione nell’ecosistema dell’informazione esiste: e offre una nuova dimensione alla generazione di informazioni.
Per la verità, anche la qualifica di “pericolose” alle utopie, mi pare difficile da accettare: non c’è nulla di male nell’utopia. E’ una dimensione del pensiero che aprono a loro volta a visioni che possono portare avanti la società. Chiudere la mente in un mondo di integralistica concretezza finisce per avere un effetto devastante. Ma sono sicuro che in fondo anche su questo Zambardino sarebbe d’accordo: e risponderebbe che non ha mai detto che le utopie sono tutte pericolose… (Già: nessuno dei due pensa integralisticamente, ne sono certo).
Allora: se gli editori hanno problemi con Google si diano una mossa e facciano qualcosa di meglio; se la società è schiacciata dalla disinformazione chi lo sa fare continui e migliori nel suo apporto all’informazione indipendente e razionale; se la rete è imperfetta miglioriamola… Spero di essermi spiegato: tutti possiamo dare un contributo, i problemi non finiranno mai, la bellezza di questa vicenda è nel percorso per affrontarli e superarli.

Osservo infine al volo che in un post lunghissimo tutto centrato sull’obiettivo di smontare il pensiero che sostengo sull’esistenza di un ruolo costruttivo delle attività di collaborazione tra soggetti diversi nell’ecosistema dell’informazione, Zambardino non ha mai linkato questo blog. Questo non è un errore, ma una scelta. Ripetuta oggi in un nuovo post. Alla conversazione, evidentemente, Zambardino preferisce il conflitto.

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  • Luca, grazie della risposta. Una sola piccola precisazione che ti ho anticipato a voce. In realtà ti ho stralinkato. Il post è sul tuo speech di Perugia e io linko l’intero tuo intervento in video incoraggiando le persone ad ascoltarlo. Peraltro l’ avevo anche twitterato in modo massiccio.
    Stammi bene e ancora grazie
    vz

  • Vittorio ha la sua utopia, ma è distopico 🙂
    Pur ammettendo senza dubbio la prevalenza del competizione sulla cooperazione nella situazione attuale, è difficile sostenere che la presa di posizione sulla seconda possa implicare svantaggi. Come del resto ho sempre creduto spuntate le armi delle visioni cooperative come softpower, almeno in una società che predilige l’efficienza per dirla con un eufemismo, ma si dovrebbe dire la forza, in tutte le sue manifestazioni, anche paradossalmente quelle relazionali e affettive. In merito alla rete è pressoché assodato che aprire la porta e più “conveniente” che chiuderla, è più efficace, è oltretutto sia più rispondente a esigenze diffuse che alla suo disegno tecnologico. Apertura per ridurre costi (esempio ne è la ricerca esplorativa, forse quella giornalistica? ancora tutto da dimostrarsi) e intercettare economie di agglomerazione certo. Spostandosi bisognerebbe ricomprendere obiettivi puramente sociali o di promozione culturale… non saprei come meglio definirle. Economicamente sostenibili? Possibile, non sono nuovi i beni che per ragione socioeconomiche e giuridiche vengono definiti come i cosiddetti “di club”, con livelli di più o meno variabile escludibilità. Con la differenza che tali beni presuppongono il sostegno dello stato per l’insostenibilità economica. O con nuove forme di pubblicità? Onestamente non riesco a comprendere l’entusiasmo e la credulità di molti quando sento parlare degli innumerevoli neologismo per designarle, se non altro per quella parte di mercato che era generalmente esclusa per alte barriere d’ingresso ad altri media. Sì definisce con un’università (come un altra piattaforma) un concorso, una gara, ecc, l’azienda investitrice finanzia, la piattaforma mette a disposizione i propri contatti, tanti partecipano e già una certa audience la si è ottenuta, magari crea il prodotto della gara e la speranza è che si diffonda. Se la speranza si rivela un wishfull thinking, come succede il 99% delle volte, si è raggiunto l’obiettivo di pagare un pò meno rispetto a una normale inserzione capitalizzando i contatti di un altro soggetto, il partner. Sarò rimasto indietro.. Nell’ambiente non profit, fondazioni e terzo settore in genere il discorso cambia, si torna nel sociale però..

  • Molte volte mi trovo d’accordo con Zambardino, ma questa volta scelgo De Biase. Il perché è presto detto: primo concordo con molti dei concetti elencati qui (non sto a ripeterli); secondo, la Rete è giovane, e certi fenomeni così diromenti (disruptive) vanno visti sul lungo periodo (Facebook tra cinque anni, Inciamperà sulla privacy? Google fra 2 anni, soffrirà non solo l’antitrust, ma anche l'”effetto social network”? Microsoft saprà reinventarsi con l’ufficio sul Web in salsa Facebook? La guerra ad Adobe che fine farà? Quale start-up emergente sarà la Next Thing?).
    Infine “non mettere i link” e’ una delle grande lacune dei siti di news italiani: faccio inchieste per Pc Magazine dal 2000, poi tutte le news di VNUnet.it dal 2004, ho tenuto Gizmodo qualche mese nel 2007, e insieme a Punto-Informatico.it siamo tra i pochi siti a mettere link esterni: speriamo che la consuetudine prenda piede 🙂 Per gli anglosassoni e’ positiva, in Italia mah 🙂

  • Ehhh vecchia storia tutta italiana quella di non mettere links… molta gente ha questi vizietti, così dicono anche i bloggers di Global Voices….
    Ma veniamo al dunque: condivido in pieno le osservazioni di Vittorio; gli editori voglion fare soldi: se NYT o Guardian non sono ancora a pagamento è solo per ciucciarsi lettori bloccati dai pay wall che si stanno variamente installando quà e la…
    non esiste nessuna filosofia o flusso partecipativo nell’ etica del proprietrio di un giornale: gli editori, piano piano e con tanta vasellina faranno tanti walled gardens, ci porteranno con aggeggini vari come ipads a pensare di essere su un desktop…mentre saremo su mobile .. e cioè a pagamento!!
    purtroppo cappuccetto quando si avventurò nel bosco, pensando che le raccomandazioni della mammina erano tutte storie fu divorata dal lupo…

  • Concrdo con Alfredo, tutta questa cora a “miobilizzare” nasconde il tentativo di staccare il pubblico da connessioni commodity se non free e portarli su connessioni ad alto costo. I gestori lo hanno capito e infatti le tariffe legate alle varie piattaforme “smart” sono più basse di quelle “no-platform”.

  • Luca complimenti per questo post è veramente carino ma soprattutto mostra un uso sociale della rete al di fuori dei social network propriamente detti e a me piace, piace molto di più perché è più libero dagli schemi ed è più personale.
    Per quanto riguarda la rete secondo sono convinto che sia guidata da uno spirito non tanto di collaborazione ma da una sorta di codice in continua mutazione che adatta le regole in modo che nessuno vinca affinché tutti vincano. Inoltre penso che le persone sappiano adattarsi molto rapidamente ai cambiamenti e migrano da un’applicazione all’altra con molta facilità. Esistono applicazioni più longeve: Facebook rispetto a orkut o google rispetto a altavista ma se i colossi diventassero troppo assetati di informazioni sono sicuro che ci sposteremo altrove. Una cosa che purtroppo noto è che molti “giovani” utenti della rete cedono senza sapere molte troppe informazioni, la condivisione è una cosa fantastica ma va fatta con intelligenza.

  • …e sul’ultima riga di stefano canepa ritorna il vecchio problema, chi educa a cosa? E’possibile insegnare molto ma l’intelligenza no.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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