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Giornali da discutere

E dunque. I giornali sono in crisi e cercano una soluzione per uscirne. Qualche editore pensa di poter vendere l’accesso ai giornali online. Altri pensano a provvidenze statali. Molti lamentano l’indebita interferenza degli aggregatori che vendono pubblicità usando le notizie pubblicate dai giornali. La discussione sul giornalismo che si è sviluppata grazie ai commenti su questo blog ha evidenziato alcuni temi che mi sembrano da riordinare e approfondire. Riassumo qui. E in fondo al post riporto i commenti originali.

1. Gli editori non hanno mai venduto le notizie; hanno sempre venduto il supporto che rendeva accessibili le notizie al pubblico, l’attenzione generata dalle notizie agli inserzionisti pubblicitari e la piattaforma di trasporto ai produttori di altri oggetti editoriali come i cosiddetti collaterali (libri, film, canzoni, ecc.).

Gli editori possono anche provare a mettere un prezzo alle loro notizie… ma non possono obbligare il pubblico a comprarle. Se nell’ecosistema dell’informazione continuano a prodursi notizie a costo zero per il lettore, saranno quelle a essere maggiormente ricercate e fruite. Le notizie a pagamento non sembrano una buona strada da seguire.

Quello che bisognerebbe approfondire nel contesto delle news online a pagamento anche in Italia è la domanda, sempre fatta da persone. Se è vero che il comitato della Fieg sta studiando le formule per far pagare le news online lasciando poi libertà di scelta all’editore proprio a seconda della domanda, nella stessa dichiarazione all’ANSA il presidente della Fieg dichiara di essere convinto che – nonostante l’abitudine alle news gratis online – “ci siano fruitori di contenuti di qualità, specialistici o di elevata professionalità che sarebbero disposti a pagare i servizi di cui hanno bisogno”.

2. Nell’ecosistema dell’informazione, i giornali possono giocare un ruolo importante coltivando l’autorevolezza e la qualità dell’informazione e mettendole al servizio della comunità.

Sarà per la passione che ho le potenzialità dello strumento telematico, sarà perché non condivido le opinioni che fanno intravedere nella Rete un pericolo piuttosto che un’opportunità, ma ritengo che il problema di una possibile crisi della carta stampata sia imputabile più alla carenza nella qualità delle “firme giornalistiche” piuttosto che nella concorrenza del Web.
I giornali non devono continuare a veicolare informazioni, questo sarebbe assurdo in un mercato ormai reso saturo dalla contestuale offerta di informazioni che provengono dal web, dalla televisione satellitare (penso ai notiziari 24H) alle edizioni cartacee dei quotidiani pomeridiani gratuitamente distribuiti nelle stazioni metropolitane.
I giornali per conservare fette significative di mercato dovranno accaparrare le migliori “firme giornalistiche” e focalizzare l’attenzione su “commenti e approfondimenti” alle notizie.
Tutti pagheremmo volentieri un commento politico, sociale o semplicemente sportivo se ben scritto e capace di accrescere la nostra opinione.

A salvare dall’estinzione gli editori tradizionali potrebbe essere l’autorevolezza, perché notizie gratuite ma di livello scadente (in un mondo logico) non le vorrebbe nessuno. Tuttavia, nel passato soprattutto recente, tra gli editori sembra esserci stata una gara al ribasso e alla perdita di autorevolezza – su questo versante la situazione non è positiva.

3. I modelli di business sostenibili si trovano partendo da piattaforme attraenti perché arricchite da informazioni prodotte da buoni artigiani giornalisti sulle quali proporre una pubblicità innovativa, un insieme di contenuti speciali e servizi a valore aggiunto.

I giornalisti continueranno a fare i giornalisti (“ciò che è davvero il giornalismo: un lavoro artigiano, fondamentalmente di ricerca, dotato di un metodo di lavoro orientato alla raccolta e alla verifica dei fatti, con una linea interpretativa esplicita”, scrivevi), la pubblicità continuerà a dovere e volere essere sempre presente dove passa lo struscio, la vera rivoluzione sta dove dici tu e quanto e come verrà convissuta da altri verrà dopo.

il tema dei servizi a valore aggiunto è fondamentale secondo me.
Ma quali però?
Quale valore aggiunto si può aggiungere a una notizia?
Forse un approfondimento di un Solone di ruolo (detto in senso buono si intende) che spieghi la notizia e dia delle informazioni che la rendono più intellegibile?
E quanto si è disposti a pagare per questo Solone di ruolo?
Il modello Freemium per la notizia può essere una soluzione forse ma la parte premium deve essere accettata come valida da un gran numero di persone, una bella sfida direi…

4. Per i giornalisti questo significa lavorare con metodo e condividere con i cittadini attivi la produzione e discussione delle notizie. In un’organizzazione rinnovata.

La struttura redazionale classica è nata e si è sviluppata perché – data l’infrastruttura tecnologica esistente – permetteva l’ottimizzazione della filiera dell’informazione con la conseguente ottimizzazione dei costi, in maniera non molto diversa da quanto avvenuto per l’industria classica.

Il modello è entrato in crisi quando è risultato evidente che Internet produce e distribuisce informazione in modo più efficiente.

Sfruttare a proprio vantaggio questa “nuova” infrastruttura significa modificare profondamente il modello redazionale classico, adottandone altri come la redazione distribuita e on demand e accettando di trasformare la piramide a senso unico editore-giornalista-lettore in un grafo fortemente connesso.

5. Non sarà facile sviluppare una collaborazione simbiotica tra il giornalismo professionale e il giornalismo dei cittadini fino a che ci saranno incomprensioni culturali e protezioni pubbliche che li separano.

Il concetto stesso di media e’ quantomai obsoleto. Il vero problema e’ che nellera dellinformazione diffusa non ha più senso un media ma ha senso un “media diffuso” la dove le persone si aggregano spontaneente. Dai discorsi che faccio periodicamente con importanti editori nazionali CIO spaventa non poco in quanto l’audience “diffusa” viene vissuta come una “perdita di potere mediatico” peccato che non si accorgano già di essere degli zombie. Come ci insegna l’evoluzione solo pochi sopravviveranno …

Unaltro aspetto da non sottovalutare minimamente e’ che la parte più importante dell’editoria e’ letteralmente “sovvenzionata” dalle provvidenze (economiche) della presidenza del consiglio che finanziano i costi dei quotidiani e che vengono erogate sulla base della tiratura e del colore politico: quindi non esiste “informazione indipendente” per nessuno. Ritengo che visto che oggi il digitale spesso supera anche il cartaceo tali provvidenze debbano essere estese anche agli editori digitali degni di questo nome, proprio perché possano batterai ad armi pari con l’editoria tradizionale. Relativamente agli aggregatori di notizie,Google in testa, visto il potere informativo di cui dispongono nell’era digitale ritengo che sia assolutamente doveroso ( e legale) che dichiarino pubblicamente i meccanismi di ranking per i quali danno più o meno visibilità alle notizie ed alle testate orientando di fatto il traffico dei lettori. Il primato del digitale e la libertà di informazione passano sopratutto dalle regole chiare ed uguali per tutti. 🙂

Andrea aka Pollicino 

@MIchele Ficara Manganelli: è vero che l’informazione on line merita rispetto, mi preoccupa quello che dici rispetto agli editori digitali degni di questo nome, p
robabilmente così finirà che i finanziamenti li prendono gli stessi controllati dal sistema di potere. Lo stato deve tutelare l’informazione e l’accesso all’informazione ma bisogna trovare criteri diversi per incentivare la produzione di informazione.

A me il problema continua a sembrare trovarsi all’inizio. Mentre riesco a vedere un mercato per le opinioni sulle notizie e l’aggregazione delle notizie, tutto questo presuppone che le notizie arrivino da qialche parte.
Con tutta la buona volontà, il “giornalismo dal basso” semplicemente non ce la può fare, un po’ per ragioni pratiche – come fai ad avere notizie dirette su quanto accade in Madagascar? – un po’ perché anche ammesso che qualcuno invii le informazioni non è affatto detto che siano utilizzabili; non ci si può improvvisare raccoglitori di informazioni

Intanto, le proposte si moltiplicano. Dopo i 12 consigli di Mashable, arriva Jeff Jarvis con la federazione di aggregatori locali (TechCrunch). E un’iniziativa di J-lab con cinque editori che sperimentano con l’università metodi innovativi per il giornalismo locale. Intanto Spot.us avanza. Le notizie locali sembrano al centro della questione. Intanto, la Huffington commenta la situazione (the future of news will be social). E lo fa sul blog di Facebook. Dopo avere sviluppato una soluzione per migliorare la partecipazione del pubblico attivo sul suo aggregatore-giornale.

Resta poi aperta la questione delle conseguenze sull’ecosistema dell’informazione di un passaggio ai notiziari online a pagamento. In proposito si diceva:

Se tutti gli editori volessero impedire la
condivisione gratuita delle informazioni prodotte dai loro giornali, di
fatto impoverirebbero l’ecosistema dell’informazione dal quale i loro
stessi giornalisti attingono per migliorare il loro lavoro. Ne
risulterebbe un peggioramento della qualità o un aumento dei costi.

Grazie a BolsoTumblr e a Pollicino per la citazione.

———————————————-

Riporto qui la discussione originale. 

Ho dei dubbi che siano i giornalisti dei quotidiani a vendere le notizie, e non le agenzie.
I “30mila megawat” di Corriere e da dove arrivano?

Bella e stimolante osservazione … MA forse il problema e un altro ovvero il concetto stesso di media e’ quantomai obsoleto. Il vero problema e’ che nellera dellinformazione diffusa non ha più senso un media ma ha senso un “media diffuso” la dove le persone si aggregano spontaneente. Dai discorsi che faccio periodicamente con importanti editori nazionali CIO spaventa non poco in quanto l’audience “diffusa” viene vissuta come una “perdita di potere mediatico” peccato che non si accorgano già di essere degli zombie. Come ci insegna l’evoluzione solo pochi sopravviveranno …

Sarà per la passione che ho le potenzialità dello strumento telematico, sarà perché non condivido le opinioni che fanno intravedere nella Rete un pericolo piuttosto che un’opportunità, ma ritengo che il problema di una possibile crisi della carta stampata sia imputabile più alla carenza nella qualità delle “firme giornalistiche” piuttosto che nella concorrenza del Web.
I giornali non devono continuare a veicolare informazioni, questo sarebbe assurdo in un mercato ormai reso saturo dalla contestuale offerta di informazioni che provengono dal web, dalla televisione satellitare (penso ai notiziari 24H) alle edizioni cartacee dei quotidiani pomeridiani gratuitamente distribuiti nelle stazioni metropolitane.
I giornali per conservare fette significative di mercato dovranno accaparrare le migliori “firme giornalistiche” e focalizzare l’attenzione su “commenti e approfondimenti” alle notizie.
Tutti pagheremmo volentieri un commento politico, sociale o semplicemente sportivo se ben scritto e capace di accrescere la nostra opinione.

Luca, bel post sull’argomento più caldo del momento.
Condivido la perplessità che lucidamente hai sollevato sulla rivoluzione concettuale che si propone tra corrispettivo del supporto e corrispettivo dell’informazione (o se preferisci del contenuto).
Scrivevo in modo più “intuitivo” e meno lucido e riflettuto qualche settimana fa (http://www.guidoscorza.it/?p=961) che l’idea di un metodo “payperinformation” oltre a non convincermi sotto il profilo della sostenibilità economica (ma non ho competenze al riguardo) mi preoccupa sotto il profilo della qualità e libertà dell’informazione: la corrispettività diretta rischia di costituire una troppo forte tentazione per gli editori di caricare i giornali di informazioni cariche di appeal (nude&sex per esempio) e povere di contenuti e, soprattutto, di trasformare l’informazione in “comunicazione commerciale.
Ti segnalo, perché mi sembra vada nella stessa direzione concettuale del tuo post questo interessante link: http://paidcontent.org/article/419-the-fallacy-of-the-link-economy/.
Due ultime osservazioni: tra le leve per vendere i giornali che, forse romanticamente, ma non credo debbano morire ne siano condannati all’estinzione ce n’è una troppo a lungo sottovalutata proprio perché si pagava il supporto: la qualità dell’informazione.
La seconda osservazione: se la crisi dell’editoria è determinata dagli aggregatori di news allora è in quella direzione che occorre andare a recuperare utili e non addossare ai lettori il costo di un preteso danno arrecato all’impresa editoriale da altri imprenditori…
Ci siamo già passati con l’equo compenso – ed ancora paghiamo il prezzo – anziché affrontare il problema della pirateria (soprattutto commerciale) si è trovata la comoda via di addebitare subdolamente alla collettività il costo del danno da altri prodotto ad un’industria.
Scusa la lunghezza del commento e buon lavoro.

Una piccola curiosità OT (neanche tanto poi) assolutamente priva di qualsiasi vena polemica.

Luca, tu che scrivi per il Sole24Ore, mi sapresti spiegare come mai in questo momento (sono le 17,55) nelle home page di tutti i principali siti di informazione (e quando dico tutti intendo tutti, compreso Il Giornale) compare la notizia del crollo del pil e dei consumi con i soli telefonini in controtendenza, e la stessa notizia non compare nell’home page del Sole? (io almeno non l’ho tovata).

Gli editori possono anche provare a mettere un prezzo alle loro notizie… ma non possono obbligare il pubblico a comprarle. Se nell’ecosistema dell’informazione continuano a prodursi notizie a costo zero per il lettore, saranno quelle a essere maggiormente ricercate e fruite. Le notizie a pagamento non sembrano una buona strada da seguire.
A salvare dall’estinzione gli editori tradizionali potrebbe essere l’autorevolezza, perché notizie gratuite ma di livello scadente (in un mondo logico) non le vorrebbe nessuno. Tuttavia, nel passato soprattutto recente, tra gli editori sembra esserci stata una gara al ribasso e alla perdita di autorevolezza – su questo versante la situazione non è positiva.

Di questo post mi colpisce soggettivamente il titolo e la conclusione. Se non ho le competenze per paragonare le scelte di business delle etichette musicali all’editoria (posso solo consigliare la lettura dell’articolo di Mantellini, “Il futuro delle notizie di carta”, dove partendo dall’intuizione di De Benedetti di voler fare di Repubblica.it l’iTunes delle notizie si passa anche attraverso un paragone critico con le case discografiche), di certo sono persone sia gli editori che i giornalisti, ed anche i sopramenziona
ti singloli autori. Tutti loro però fanno parte dell’offerta, mentre IMHO quello che bisognerebbe approfondire nel contesto delle news online a pagamento anche in Italia è la domanda, sempre fatta da persone. Se è vero che il comitato della Fieg sta studiando le formule per far pagare le news online lasciando poi libertà di scelta all’editore proprio a seconda della domanda, nella stessa dichiarazione all’ANSA il presidente della Fieg dichiara di essere convinto che – nonostante l’abitudine alle news gratis online – “ci siano fruitori di contenuti di qualità, specialistici o di elevata professionalità che sarebbero disposti a pagare i servizi di cui hanno bisogno”. Non metto in dubbio questa autorevole convinzione, e per ora mi conforta pensare che i singoli editori faranno verosimilmente delle ricerche di mercato (mi auguro ad es. dei sondaggi e/o “forum”, ma – sconfinando un po’ – anche consulenza di autorevoli giornalisti-blogger quali obiettivamente Luca De Biase), che soggettivamente ritengo che in tutta questa annunciata trasformazione – piuttosto che una decisione presa dall’alto – sia l’elemento di inclusione di tutte le persone.

In un giornale grande e complesso come il Sole 24 Ore chi si occupa di un settore di solito tenta di non rispondere di ciò che fa chi si occupa di un altro settore. E io non ho l’incarico di occuparmi del sito del Sole. Ma posso dire che i colleghi ce la mettono tutta per fare un buon lavoro. Non ho visto il sito del Sole nel pomeriggio. Vedo ora che il dato Confcommercio è riportato in questa pagina:http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2009/08/confcommercio-consumi-italia.shtml?uuid=22d203e8-8b1d-11de-af46-a0df39fd03cb&DocRulesView=Libero&fromSearch
Ne approfitto per ringraziare di tutti i commenti. Che francamente ritengo siano la parte più interessante di questo blog. Tornerò sull’argomento prossimamente: come dicevo ne sto scrivendo. Anche se è davvero enormemente difficile: ho infatti l’impressione che le responsabilità dello stato in cui versa il sistema dell’informazione italiana siano condivise tra tutti gli attori coinvolti. Giornalisti compresi. Non è dunque facile scagliare una prima o un’ennesima pietra per chi fa comunque parte di una categoria che a modo suo e con il suo ruolo contribuisce alla crisi. E non è facile dover dire che per quanto attiene ai modelli di business – il tema principale del dibattito di questi giorni – la questione è fondamentalmente degli editori.

(io però avevo commentato… il mio messaggio si è perso perché aveva due link? 🙁

“È una soluzione complicata perchè rivoluziona l’intero ecosistema dell’informazione: gli editori infatti, non hanno mai venduto le notizie; hanno sempre venduto il supporto che rendeva accessibili le notizie al pubblico”.

Grazie per aver beccato il punto.

I giornalisti continueranno a fare i giornalisti (“ciò che è davvero il giornalismo: un lavoro artigiano, fondamentalmente di ricerca, dotato di un metodo di lavoro orientato alla raccolta e alla verifica dei fatti, con una linea interpretativa esplicita”, scrivevi), la pubblicità continuerà a dovere e volere essere sempre presente dove passa lo struscio, la vera rivoluzione sta dove dici tu e quanto e come verrà convissuta da altri verrà dopo.

Non è ovviamente una delega: è solo che il mercato si muove là dove passano i soldi, e l’editore in questo campo è il media (economico) dei media (di notizie, i giornalisti e il supporto). Indipendentemente da quale tipo di editore sia, ovvio, vedi Spot.us

ciao .mau! non so perché si sia perso… ora ho liberato un tuo commento che si era impigliato in chissà quale perplessità di questa piattaforma, ma non conteneva due link… 🙂

boh… chissà che era successo con il commento (alla fine i link non li avevo messi perché non erano così importanti 🙂 )

La struttura redazionale classica è nata e si è sviluppata perché – data l’infrastruttura tecnologica esistente – permetteva l’ottimizzazione della filiera dell’informazione con la conseguente ottimizzazione dei costi, in maniera non molto diversa da quanto avvenuto per l’industria classica.

Il modello è entrato in crisi quando è risultato evidente che Internet produce e distribuisce informazione in modo più efficiente.

Sfruttare a proprio vantaggio questa “nuova” infrastruttura significa modificare profondamente il modello redazionale classico, adottandone altri come la redazione distribuita e on demand e accettando di trasformare la piramide a senso unico editore-giornalista-lettore in un grafo fortemente connesso.

Unaltro aspetto da non sottovalutare minimamente e’ che la parte più importante dell’editoria e’ letteralmente “sovvenzionata” dalle provvidenze (economiche) della presidenza del consiglio che finanziano i costi dei quotidiani e che vengono erogate sulla base della tiratura e del colore politico: quindi non esiste “informazione indipendente” per nessuno. Ritengo che visto che oggi il digitale spesso supera anche il cartaceo tali provvidenze debbano essere estese anche agli editori digitali degni di questo nome, proprio perché possano batterai ad armi pari con l’editoria tradizionale. Relativamente agli aggregatori di notizie,Google in testa, visto il potere informativo di cui dispongono nell’era digitale ritengo che sia assolutamente doveroso ( e legale) che dichiarino pubblicamente i meccanismi di ranking per i quali danno più o meno visibilità alle notizie ed alle testate orientando di fatto il traffico dei lettori. Il primato del digitale e la libertà di informazione passano sopratutto dalle regole chiare ed uguali per tutti. 🙂

@MIchele Ficara Manganelli: è vero che l’informazione on line merita rispetto, mi preoccupa quello che dici rispetto agli editori digitali degni di questo nome, probabilmente così finirà che i finanziamenti li prendono gli stessi controllati dal sistema di potere. Lo stato deve tutelare l’informazione e l’accesso all’informazione ma bisogna trovare criteri diversi per incentivare la produzione di informazione.

A me il problema continua a sembrare trovarsi all’inizio. Mentre riesco a vedere un mercato per le opinioni sulle notizie e l’aggregazione delle notizie, tutto questo presuppone che le notizie arrivino da qialche parte.
Con tutta la buona volontà, il “giornalismo dal basso” semplicemente non ce la può fare, un po’ per ragioni pratiche – come fai ad avere notizie dirette su quanto accade in Madagascar? – un po’ perché anche ammesso che qualcuno invii le informazioni non è affatto detto che siano utilizzabili; non ci si può improvvisare raccoglitori di informazioni.

il tema dei servizi a valore aggiunto è fondamentale secondo me.
Ma quali però?
Quale valore aggiunto si può aggiungere a una notizia?
Forse un approfondimento di un Solone di ruolo (detto in senso buono si intende) che spieghi la notizia e dia delle informazioni che la rendono più intellegibile?
E quanto si è disposti a pagare per questo Solone di ruolo?
Il modello Freemium per la notizia può essere una soluzione forse ma la parte premium deve essere accettata come valida da un gran numero di persone, una bella sfida direi…

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  • Può sembrare una frase fatta, ma dalla crisi che sta attraversando il giornalismo possono nascere grandi opportunità. Se da un lato infatti diminuiscono i posti di lavoro da redattore ‘fisso’, dall’altro continua ad aumentare il numero di giornalisti freelance (www.toreport.net).
    Per questo credo che ci stia avviando verso un nuovo sistema decentralizzato: redazioni sempre più snelle, freelance sul territorio.
    E qui sorge un altro problema: con la diffusione di Internet e delle nuove infrastrutture tecnologiche, come avete detto, sta cambiando la funzione dei quotidiani. Da mezzo di informazione a mezzo di approfondimento. A questo punto saranno indispensabili le inchieste, i reportage, le cosiddette esclusive. Sarà un ritorno alla pura professione giornalistica, quella fatta di ricerca della notizia, di costruzione, di studio, di approfondimento… E non di ‘cut and paste’…

  • E io faccio un po’ di “cut and paste” 🙂 ma solo per proporvi quella che sembra essere la prima ricerca di mercato in Italia sulle news online a pagamento per i cosiddetti lettori “generalisti”.
    Ora, riesco a risalire – via Marco Pratellesi (“Web, la fine del tutto gratis”) – a uno studio del Boston Consulting Group, che a quanto si legge su un articolo a firma di Edoardo Segantini del Corriere della Sera (Corriere Economia), “Internet: chi è pronto a pagare le news” (l’articolo – del 22 giugno 2009 – merita una lettura approfondita, io mi limito a un sunto), tenta per la prima volta in Italia di dare risposta a due domande chiave, e cioè quale informazione sarebbero disposti ad acquistare sul web i lettori “generalisti” e quanto sarebbero disposti a pagarla.
    Ebbene, quasi metà dei lettori (49%) sarebbero disposti a pagare per leggere online la versione integrale del corrispettivo cartaceo. La stessa percentuale dei lettori pagherebbe per una rassegna personalizzata e tematica delle notizie in tempo reale. Il 44% pagherebbe per la rassegna stampa giornaliera.
    Di seguito (senza percentuali) vengono riportati: al quarto posto gli archivi, poi gli editoriali, e di seguito gli approfondimenti. Agli ultimi posti: economia e finanza, sport, gossip e spettacoli (non mi permetto analisi, se non di ricordare che i lettori intervistati sono “generalisti”, e rimando alla fonte per un bel quadro completo: http://www.corriere.it/economia/09_giugno_22/chi_e_pronto_a_pagare_le_news_online_segantini_acb42a74-5f1b-11de-bd53-00144f02aabc.shtml).
    Il campione è composto da 600 persone tra i 18 e i 65 anni, metà maschi e metà femmine, di tutte le regioni d’Italia. Sono esclusivamente utenti internet e lettori di notizie online, di cui solo il 34% compra quotidiani in edicola.
    E quanto sarebbero disposti a pagare? I lettori intervistati dal Bcg spenderebbero mediamente 5 euro al mese per l’acquisto di news online.
    Due domande me le pongo io: basterebbero questi nuovi introiti a fronte di una perdita di circa metà dei lettori online? E non è fors’anche necessario che ciascun giornale faccesse i propri sondaggi sulla base dei rispettivi lettori?
    Grazie della citazione e dell’ospitalità. 🙂
    Marco

  • Luca, aggiungerei una riflessione che mi sembra utile sul “poi”. Ovvero mi chiederei perché l’editoria digitale a pagamento dovrebbe sottrarsi al “fallimento di mercato” che, a sentir loro, ha sin qui travolto l’industria musicale, quella cinematografica e persino quella libraria? In cosa un’informazione on-line pagata sarà diversa da un file mp3? Qui il mio punto di vista: http://www.guidoscorza.it/?p=1030
    Complimenti per lo straordinario dibattito che sei riuscito ad animare in pieno agosto. A settembre bisognerebbe, forse, trasferirlo off-line cercando di coinvolgere qualche editore più illuminato.

  • Mi associo ai complimenti per la bella discussione..
    In effetti, come dice Guido le cose stanno proprio cosi’ già oggi, senza aspettare domani. Le 4 major della musica sono in parte sovrapposte alle 4/5 major dell’editoria, del cinema, delle radio ecc… Finivest controlla Medusa, Mondadori, Mediaset, Radio 101.. RCS controlla il Corriere, Rizzoli, un paio di radio, Espresso controlla Repubblica, il canale All Music, Radio DJ ecc…
    In Italia quelli che “distribuiscono” cultura in tutte le forme si contano sulle dita di una mano, i loro mercati sono intrecciati e si basano tutti su un oligopolio. La crisi del settore musicale è la prima tegola che casca in un mondo in cui l’informazione pare valere sempre di meno (sul mercato) e per un tempo molto più breve, per mille ragioni. Quando si immagina “il futuro dell’editoria” implicitamente si pensa che fine faranno i grandi giornali che oggi vivono di una situazione che non è più sostenibile perchè in quel settore, come nella musica, ci saranno semplicemente meno soldi. Quindi, l’editoria come la conosciamo (cosi’ come le major discografiche come le conosciamo) non penso che potranno mantenere questi livelli di fatturato e di importanza.
    Se vogliamo immaginare come sarà Repubblica tra 15 anni, secondo me bisogna partire dal presupposto che avrà forse la metà del fatturato.

  • @Leonardo, perché proprio Repubblica capitombola, facendo parte delle 5 major integrate verticalmente, come sostieni? La crisi, se dobbiamo fare un distinguo, almeno nel settore musicale è nell’anello distributivo classico, il ché non significa che i diversi canali siano gestiti di nuovi attori, se non altro che si è compressa la catena (a vantaggio degli autori che diventano anche produttori e distributori in qualche caso) e aumenta il format spettacoli dal vivo ancorato a altre forme di ricavo. Perché solo il modello Hulu nella webtv è sostenibile? Eppure è una diversificazione delle major. Con questo per dire che l’intrattenimento avrà più modalità di disimpegno. L’informazione ha troppi problemi, il primo è l’incapacità d distinguersi come valevole per il pubblico. Quindi il primo aspetto da risolvere è la ricerca degli attributi, fattori e caratteristiche che manifestano incontrovertibilemente la sua scarsità. Se tutti possono dire “anch’io” il primo è come l’ultimo. Finché non sarà risolto questo nodo, il valore non esiste e nessuno sarà disposto ad apprezzarla. Risolverlo non significa successo, ma almeno aver un’idea chiara sul quali sono i fabbisogni informativi di un determinato mercato, se sono difendibili e quanti sono i costi per soddisfarli. Il modello di business conseguente non ne può prescindere. Un bisogno informativo può anche esser una modalità di consumo e non un contenuto ovviamente, può esser un contenuto che posso trattare meglio degli altri come anche la sicurezza che a parità di trattamento garantisco la validità delle fonti.
    Le fonti sono quasi infinite, un modello semplice all’apparenza, sarebbe quello di ordinarle per scopi informativi, lasciando al committente l’alaborazione. Chi meglio di un editore ha disponibilità sia in ampiezza che in profondità del valore delle proprie fonti. In una piattaforme si recepiscono fabbisogni informativi, vengono organizzate in rispondenza sia delle risorse e nella fase di confezionamento si definisce il valore aggiunto, la risoluzione di una asimmetria informativa, quella identificata a monte nella ricerca dei fabbisogni. Da ricerche più o meno approfondite, i manager per esempio, ricercano informazioni con la stessa frequenza dai giornali come nei motori di ricerca. Il costo di ricerca è molto alto, spesso con risoluzioni a livelli più o meno ampi di compromesso. E’ proprio tra quei livelli che andrebbe valutata la qualità e la disponibilità a pagarla.

  • Leggevo che l’industria libraria è in crisi. Non mi risulta, è quella che fa meglio di tutte. Se per crisi intendiamo che qualcuno esce dal mercato allora ben venga.

  • @Emanuele
    Ho detto Repubblica solo per riferirmi ad un grande giornale ed al gruppo editoriale che gli sta dietro. Siamo d’accordo in molte cose, la produzione di informazione aumenta e diventa più orizzontale, quindi il problema delle persone è e sarà sempre di più discernere tra le possibilità. Non a caso i social network servono proprio a questo, ad avvicinare i simili (nei gusti musicali, nei blog, negli aggregatori di notizie (vedi slashdot..)) e con l’esperienza farti arrivare le notizie che gente simile a te ha prodotto o filtrato. Ora, questa cosa la potrebbe fare anche Repubblica, ma è un grosso cambio di paradigma che non penso sarà facile digerire per chi ci lavora dentro. Inoltre, se è vero che i giornalisti di Repubblica potrebbero fare da filtro con competenza, è anche vero l’investimento che ci vuole per svolgere questo ruolo è molto minore di quello che ci vuole oggi per essere il primo giornale d’Italia quindi ci sarà una concorrenza più forte e conseguentemente meno soldi. Guarda che non penso a meno soldi in assoluto, ma meno soldi per quei pochi nomi che oggi portano il mercato in mano. Era questo il senso principale, cioè che oggi se si pensa al giornalismo abbiamo il riflesso condizionato di riferirsi a Repubblica, Corriere, Sole, Stampa, Messaggero… perchè i dati ci dicono che loro usano più carta di tutti gli altri messi insieme. Ecco che se si vuole pensare al giornalismo di domani, dobbiamo immaginare un giornalismo in cui quelli hanno meno soldi da spendere, perchè sarà un mercato meno centralizzato, quindi semplicemente non dobbiamo pensare a come quei 5 nomi faranno a sostenersi domani, perchè secondo me non ci sarà questa concentrazione di mercato. Dobbiamo abbandonare il nostro riflesso condizionato…

  • Tutto chiaro e indubbiamente quella potrebbe esser una ipotesi di scenario. Ha come assunto attuale (ora):
    1) che i soldi si riversino in altri mezzi;
    2) che si crei frammentazione;
    e che questo è dettato dall’indisponibilità a spendere nei mezzi attuali della doppia domanda, pubblico e pubblicità.
    Il primo assunto dipende dalle scelte riorganizzative e strategiche attuali degli editori, il secondo in linea di massima ne è una conseguenza, ovvero come tali scelte aprono spiragli più o meno ampi di entrata.
    Da questo dire che sarà meno concentrato ce ne passa, in situazioni come quella descritta in genere avvengono consolidamenti, gli uscenti lasciano almeno inizialemente un vantaggio ai più forti, che se ne ripartiscono le risorse, per acquisizione diretta o con altre forme.
    Nel modello di revenue che citi dai per scontato che sia l’unico, quando invece le linee di sviluppo cercano la diversificazione e quella potrebbe esser solo un’unica area di affari, la più basica magari. Attualmente in Italia a differenza di altri paesi, è molto più frammentato comunque, facendo trasparire che il mercato bellezza! è una scoperta primi anni 2000.
    In Italia prenderà una linee molto meno brusca il cambiamento, malgrado quello che sostieni rispetto alle entrate è una tendenza che è partita già da un anno e in modo consistente.
    A mio modo di vedere, gli esperimenti per rifocalizzarsi sul mercato, solo gli editori possono farli e presumibilmente, saranno i primi che anche sotto stress apriranno spazi alternativi. Non credo nei nuovi entranti nell’informazione insomma. Non è pessimismo ma che le forti barriere di ingresso alla stampa non sono di ordine economico. La free press è stata un’innovazione nel mercato, con la crisi è la prima che traballa. Un motivo c’è.

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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