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Dibattito dei post giornali

Il terrore che pervade il mondo dei giornali continua. L’impatto di internet non è facile da assorbire e l’esempio del disastro avvenuto nel settore della musica, per la scarsa lungimiranza delle major e per la difficoltà a innovare il modello di business, fa pensare alle più gravi conseguenze. Il dibattito si muove tra chi sostiene il superamento della figura dei giornali – e dei giornalisti – e chi pensa che tutto quello che conta sia rinnovare il modello di business.

La confusione delle analisi è particolarmente grande. Anche perché tutto rischia spesso di ridursi a una contrapposizione ideologica, o a una questione di soldi, o a un generale scetticismo, o a una fede assoluta nelle capacità taumaturgiche della tecnologia. Niente di tutto questo può risolvere il problema emergente: posto che i cittadini di una società democratica hanno bisogno di informazioni per decidere in modo consapevole, in quali modi risponderanno a quel bisogno nel contesto storico che si va formando?

Evidentemente non c’è una risposta, ma alcuni filoni di ricerca.

I temi di frontiera, dai quali possono giungere idee nuove, secondo me, attualmente sono:
1. L’iperlocale. I giornali di una strada o di un microsettore. Facili da sostenere e utili all’insieme dei vari organi di informazione. (vedi NyTimes)
2. La sperimentazione. Ogni tentativo è buono, pochi riusciranno, ma da questa dinamica usciranno le risposte. (Shirky)
3. L’immediatezza. Il microblogging su piattaforme tipo Twitter come nuova fonte di notizie.
4. La nuova sostenibilità. Il giornalismo di servizio e di inchiesta sostenuto dal finanziamento delle comunità di cittadini.
5. L’ecosistema dell’informazione. Il recupero di un pensiero di sistema nel settore delle notizie e le nuove relazioni tra piattaforme, editori, autori  (Johnson).

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  • Luca, e dagli. Le major non sono lungimiranti (anche se ho dei dubbi, guarda la creazione dal nulla del fenomeno “punk” e le sue conseguenze sull’indipendenza degli artisti, scesa a zero) ma non ci sarebbe stato scampo lo stesso: se dematerializzi un prodotto che prima era legato a un supporto fisico e trovi il modo di distribuirlo gratuitamente, chi campava sul fatto che fosse a pagamento E’ MORTO comunque. L’unica cosa che può succedere è che tutto il settore, gratis o no, finisca per morire per esaurimento delle fonti. Lo scarico di musica gratis è un parassita del sistema delle major, che pagano i costi dei contenuti. Ma è un parassita anche degli artisti: trovami un artista che si sia affermato e MANGI (quella attività che deriva noiosamente dall’avere un reddito, you know) grazie agli MP3 su, per dire, Limewire (e solo a quelli, non valgono i casi degli artisti lanciati dalle majors).
    Tutti gli esempi che fai sono suggestivi ma dovrebbero rispondere alla solita vecchia domanda: CHI PAGA ? I cittadini ? E perchè dovrebbero farlo ? E non potrebbero COMPRARE IL GIORNALE TRADIZIONALE che facesse le inchieste ? Non mi dire che i giornali non fanno inchieste. Perchè i cittadini non li comprano ? Cosa c’è di diverso ? Il giornalista deve diventare un investigatore privato ? E se quello che trova non piace ai “committenti cittadini”, che fa ? Non prende soldi ? Li prende lo stesso ? Ha un “success fee” per cui si inventa le cose (come diceva Evelyn Vaughn, se non avete notizie mandate i pettegolezzi)?
    Domanda ancora più difficile: se voi giornalisti-editori etc, l’ecosistema dell’informazione, siete così convinti dell’eccellenza dei vostri contenuti perchè non portate il prezzo del giornale a due euro, anche a tre euro, vi organizzate con gli strilloni per saltare la dtribuzione che vi crema il 50 per cento del prezzo di copertina e vivete felici, ricchi (spiritualmente, non sia mai) e contenti ? Il Sole costa 1,4 euro a copia. Fatelo pagare 2, convincete il distributore a prendersi “solo” mezzo euro (che è quello che si prende adesso): coprirete i costi e avrete persino 0,1 euro a copia per fare investimenti sulla qualità, trallallà. Perchè non seguire questa strada, coerente con tutte le chiacchiere che si continuano a fare sul declino della pubblicità ? Ai posters l’ardua sentenza.

  • luca, figuriamoci se voglio negare che l’informazione sia in crisi. anche in Italia. però credo sia un errore continuare a vedere quello che succede oltreoceano, dove chiude un quotidiano alla settimana, credendo che tra sei mesi succederà lo stesso anche da noi (non sto dicendo che sia tu a fare questo paragone, anzi, mi riferisco alla maggiore parte delle cassandre che leggo ormai da mesi). paragonare noi e gli Usa è un azzardo. la crisi (finanziaria ed economica) ha una portata decisamente diversa. il mercato editoriale è agli antipodi.
    tornando dalle nostre parti, quei pochi che ogni mattina aprono il giornale immaginando che possa essere l’ultima volta, perchè presto internet se lo mangerà, dimenticano che, pur con i cali e le difficoltà del caso, i grossi gruppi editoriali sono in utile (ho semplicemente dato un occhio ai conti del 2008, non sono un esperto e dunque mi espongo alle critiche). Il 2009 con ogni probabilità andrà peggio. Stiamo vivendo una fase congiunturale (crisi=tagli alla pubblicità). E, certo, una innegabile crisi del settore. Ma non stiamo morendo, se non quando scriviamo lunghi articoli malinconici sulla fine dei giornali (Murdoch dice che noi giornalisti godiamo come pazzi a parlare della nostra fine; in effetti ho l’impressione che parte della categoria goda in generale nel declinare le versioni più drammatiche della realtà).
    Eppure il momento che stiamo vivendo può dare uno scossone a un settore che è sfasato di una decina d’anni della realtà e dalle opportunità tecnologiche. Siamo portati a immaginare grandi rivoluzioni, forse è più probabile che ci sarà una diversa distribuzione delle forme. A partire dalla pubblicità, per la quale un pagarone carta/web non è minimamente probabile: il secondo, in termini relativi, è come se non esistesse (qualcuno sa dirmi il perchè?).
    Luca, Faccio tesoro dei punti che hai evidenziato. e mi permetto di aggiungerne un paio.
    Il primo, non lo invento certo io, è quello dei micropagamenti. La declinazione dei grandi siti web di informazione in diversi canali verticali permette la creazione di prodotti di qualità e servizio per i quali la forma del pagamento (purchè molto semplice) può funzionare. Al momento i prodotti di ricerca giornalistica vengono nella maggiore parte dei casi messi sulla carta per provare a distinguere, sopratutto agli occhi del lettore-cliente, le news asciutte in tempo reale del web dal valore aggiunto (a pagamento) della carta. In realtà le cose non stanno esattamenete e così e si assiste a variazioni schizofreniche di questo modello ormai decennale. Il progressivo (e non per forza definitivo) drenaggio di servizi a valore aggiunto studiati per il web credo che possa avvenire a pagamento. Parte di questa strada la stanno battendo il Wsj ed FT. Tanto per essere chiaro: credo che le news debbano rimanere gratuite e basarsi sul modello dell’advertising, ma che una nicchia di contenuti possa contemplare il pagamento.
    Il secondo è uno sforzo per pensare prodotti che abbiano il ritmo del web. soprattutto i siti dei giornali stranieri sperimentano da tempo infografiche in flash, percorsi interattivi e sono aperti ad altre forme che nasceranno dalla libera sperimentazione creativa della Rete. Per dare un’identità al web che una volta per tutte gli tolga questo spettro di cannibale della carta. Internet è un’altra cosa. (imho)

Luca De Biase

Knowledge and happiness economy Media and information ecology

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